Le luci della notte scorrono via, veloci libellule nell’oscurità. Palazzi , stazioni, muri ricoperti di rampicanti e di muschi, sterpaglia, altri muri con sopra graffiti, silenzi di nuvole, silenzi di stelle.
Il finestrino del treno riflette tutto questo, dietro una muraglia di gocce di pioggia sabbiose, ormai secche e ferme sul vetro a creare una decorazione piena di sporco divertente.
La luce del neon che viene dalla cabina della mia cuccetta fa uno strano gioco con il buio e, così, il riflesso sul finestrino è un altro me con la mia faccia divisa a metà: un pezzo nella notte, l’altro che mi guarda.
Treni che se ne vanno, come il mio, nella notte di un giorno che è stato di pioggia. Treni che arrivano, come quello di Nicolas, che ho incontrato per caso alla stazione stasera. Incredibili incontri del caso o della strada: lui studia a Milano e, proprio, qualche giorno fa ci scrivevamo che prima o poi le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo e avremmo lungamente parlato davanti ad una bottiglia di porto e qualche biscotto secco improponibile, ma così romantico nell’atmosfera di due amici che discutono sull’essenza del mondo e della libertà. Trovo affascinante che, mentre cercavo il mio binario: “Oh Alex che ci fai qui?”
“Che ci faccio io? Tu piuttosto Matt? Io vado a Torino per il premio di letteratura che ho vinto. Te l’avevo detto no?”
“Sì certo. Io sto aspettando Nicolas che torna da Milano. Ne avevamo parlato l'altro giorno, ricordi? Sto con gli altri.”
“Allora aspetterò con voi. È deciso.”
“Okay, il treno è arrivato ora. Tu facci segno quando arriva, noi ci nascondiamo: vogliamo fargli uno scherzo.”
“Va bene”
E così dopo una decina di minuti a guardarci negli occhi con Matt, ma anche con Fred e un altro loro amico - occhi frenetici, ansiosi che ridacchiano per l’infantilità dei nostri giochi e per la purezza del sentimento dell’attesa e dell’amicizia – ecco che Matt fa un segno con la mano e mi indica in mezzo alla folla. Tanti passeggeri e borse, valigie, zaini, pellicce, giacconi, ombrelli, cappelli, sciarpe, occhiali, capelli che camminano e creano un ritmo rumoroso sulla terra. Alzo, muovo a lato, giro la testa e poi vedo quella chioma di capelli neri ricci che si erge come un cespuglio tra tutti e il passo svelto di chi, e guardo bene se è così –e così è-, cammina con le scarpe bianche, semplici, un po’ logore da vecchio artista, ballerino, ginnasta quale Nick è.
Corre via e mi diverto a guardare. Fortunatamente Matt e Fred non si incantano e partono all’inseguimento: “Ma dove volevi andare con sto passo?”
“Matt, Fred, Andie!”
“E guarda chi c’è?”
Arrivo da lontano, sorrido, perché è divertente, lo è davvero:
“Alex! Anche tu sei venuto!”
“Veramente c’hanno fatto trovare…sto andando a Torino”
“E’ la strada”
“Decisamente amico mio, decisamente”
Ed è tutto cerchiato da una nebbiolina come nei film sfumati da un cerchio che si richiude al centro, ricordo del vecchio cinema in bianco e nero; ed è tutto interessante, entusiasmante, incomprensibile, veloce e commovente: Nick tocca la faccia di tutti, abbraccia, dà pacche, credo voglia controllare se siamo reali, se è così, se la lontananza che ha provato è andata o meno a intaccare qualche formula chimico-fisica per cui ci saremmo dovuti essere trasformati.
Parliamo qualche minuto, qualche battuta sul nuovo assetto del gruppo, sullo studio, sul tutto ritengo, infine.
“Beh, la mia ragazza mi aspetta.”
“Io devo prendere il treno”
“Ciao Alex! Mi raccomando, fatti valere!” dice Matt: per lui bisogna sempre farsi valere. Fred saluta con la mano, anche l’altro loro amico.
“Ciao Alex”
“Ciao Nick, ci rivediamo tanto”
“Per la strada, al prossimo incrocio”
Ridiamo e siamo contenti. Ancora non ho rivisto Nick, ma succederà. È così. Lo sappiamo.
Vie che si incrociano sulle vite e sui binari. E ancora treni che si fermano, treni che non partono, treni senza soste, treni troppo lenti.
Tutte rotaie protese come braccia immaginarie o così voglio immaginarle: s’accavallano, s’aggrovigliano, si abbandonano e si perdono in destinazioni scritte su un tabellone luminoso a cui tutti stanno a guardare. Proprio come le vite.
Solite storie di treni, solite storie di vite che montano ad una stazione, mentre fumo una sigaretta, aspettando la prossima linea gialla dietro cui attendere.
In questa notte rumorosa del borbottare del rumore ferroviario sento che mi manca qualcosa, mentre me ne sto appoggiato sul cuscino della cuccetta, ultimo letto in alto. L’ho vista oggi nei miei amici. Mi manca aver avuto un amico con cui essere aperto quando ero ancora un ragazzino: non ho questo ricordo. Non ho avuto un qualcuno con cui spezzare gli spiriti e, forse, anzi, di sicuro non ho mai voluto spartire con nessuno le verità profonde dell’adolescenza, che sono le più sensibili pur se le meno veritiere o, forse, le più veritiere anche se le prime a cui attentano per ucciderle, riuscendo spesso nel losco tentativo. Quando ho cominciato a capire l’importanza di un cuore che si schiude e di un sorriso che capisce, ero ormai troppo “vecchio” per avere quel legame di chi si chiama solo sapere come sta l’altro, senza trucco e senza inganno insomma.
I miei amici migliori li ho perduti in un istante di rabbia fredda, di quella rabbia fredda che porto dietro quando sono deluso e tradito a causa di quel nulla che trovo grandioso ed imperdonabile. Rabbia orribile, implacabile che vuole vedere distruzione a costo della propria e, ancor peggio, crea fantasie di nemici nascosti.
E m’appartiene, è mia la maledetta. E maledetto sono io con lei.
Orgoglio, orgoglio, troppo orgoglio. Il mio silenzio passato è la mia punizione presente, perché proprio ora vorrei parlare. Quanto mi manca non aver condiviso prima le mie storie con qualcuno e aver perso tempo e terreno.
Che uomo sarei stato? Meno testardo, insensibile, rude? Più futile, simpatico? Un personaggio di luce? Non lo so, non me ne frega niente ora che ci penso.
Forse, non è solo colpa mia: non c’è mai stato nessuno con cui condividere i sogni e coloro che ho trovato m’hanno tradito, e m’hanno beffato perché hanno tradito la mia intenzione di migliorare.
Sono contento che oggi ci sia Jules, Nick, Matt, Jean che, in modo diverso, mi capiscono, mi vogliono bene e con cui parlo di quello che succede nell’aria e nella città.
Grande Jules, amico mio, che quasi mi pestava per esprimermi la sua contentezza per questo premio. Quando capirai quante cose sono in tuo potere fare? Quando capirai che non sei come vogliono farti credere che tu sia? Quando smetterai di schernire i tuoi demoni e deciderai di metterti a sedere e parlare con loro?
Sento un vuoto, mi manca un pezzo, un passaggio che è bruciato via e si sparge nell’aria come il fumo della mia sigaretta. Mi manca aver mescolato i sogni degli altri coi miei quando era bello fare così, quando era bello arrampicarsi sugli alberi e dire le parolacce per telefono alle vecchie signore, quando era bello parlare tra i banchi di scuola.
È per quel vuoto che scrivo? No questa è solo una parte del vuoto tutto.
Allora è questo l’infinito?
Sono sospeso in un pallone aerostatico e non riesco a toccare nessuno.
A cosa appartengo?
Lancio la sigaretta e si perde lucente nel nero vuoto che costeggia questo treno.