Luca Bordon era un vecchio sessantottino spiantato, uno di quelli che non aveva deciso di farsi riprendere dalla società, ma che la società aveva deciso di riprendersi, facendolo passare dalla porta sul retro della vita. Sulla cinquantina, capelli brizzolati, faccia scarna, magro, se non per una leggere prominenza addominale ad indicare il suo utilizzo abitudinario di Nastro Azzurro e la sua età che avanzava in silenzio. Un'esistenza anonima. Era in quel periodo in cui si prendono le ultime decisioni rilevanti sulla propria esistenza: continuare a far il bidello di una scuola elementare o farsi una vita, riprendersi da quella stasi che durava da una ventina d'anni circa. Bordon non era sposato, niente figli, niente amici, nessuna relazione, una passione per le lingue straniere che mai aveva imparato e che adorava ascoltare la sera, mentre scongelava la cena, girando tra i telegiornali internazionali che, a rotazione, si alternavano sul suo televisore. Meraviglie della TV satellitare. Si era messo a navigare su internet per cercare la sua anima gemella, l'altra metà del cielo ecc ecc... Poi, un giorno, aveva intrapreso una conversazione con una persona incredibile e dopo un mese di scambi di idee, parole, esperienze, avevano cominciato a scriversi per lettera, come si faceva tanto tempo fa. Il vecchio Bordon, così, s'era ricordato come ci si sentiva da giovani, o meglio, quando lui era giovane e le ragazze e i sogni, di certo, non gli mancavano. Ricordava il suo viaggio folle in Tibet, la visione della città di Lhasa, l'emozione di quello che sapeva spiegare solo nei suoi pensieri, l'unico epico racconto della sua vita che potesse dire di aver vissuto. Solo in quei fogli di carta, scritti a penna, riusciva ad esprimere altro, tutti quei sentimenti e quell'amore che gli veniva dai pochi libri che gli passavano sotto mano.
Così, dopo un anno d'amorosa corrispondenza, in una lettera prese il coraggio di scrivere:
"Incontriamoci"
La risposta non si fece attendere:
"Fra tre giorni" e indicati c'erano il luogo, l'ora, il modo per riconoscersi l'un l'altro: avrebbero avuto in mano un fiore giallo. Tutto qui, tutto semplice, sincero, romantico, profumo d'antico.
Luca Bordon, bidello in pausa di riflessione, stava fermo, appoggiato ad un palo della luce, una rosa gialla in mano in una mattina che annunciava pioggia.
Passò un'ora rispetto a quella concordata per l'appuntamento. Doveva andare a lavoro. Aspettò ancora un'altra ora, l'avrebbe giustificata incolpando i ritardi dei mezzi pubblici. Restò comunque l'unico con un fiore giallo in mano quella mattina, su quella piazza. Si mise il cappello in testa, buttò il fiore in terra. Cominciò a piovere.
Tre giorni ad aspettare. Tre giorni. Non facciamo altro che aspettare e sperare.
E fumare, a volte.
Fermo lì, la mia brava sigaretta, a sperare. Quando c'è qualcosa in cui si crede di poter credere, ci si aggrappa alle sue vesti, specie se ha una figura umana e tu sei solamente uno dei tanti volti di una
città che scende frettolosamente dal letto.
La coinvolgente sensazione di sperare che prende, afferra, il groppo alla gola, il pensiero che fa ridere e tutti si chiedono perchè quell'idiota lì, che poi sarei proprio io, stia ridendo, le parole che non sento perchè viaggio su altre frequenze, il silenzio che parla davvero e chissenefrega quello che dice, mi pare già straordinario poterci conversare, l'attesa che stride nei denti, la meraviglia, mai provata, per la noia di un giorno di pioggia, osservato da una finestra di un qualche luogo che non mi interessa realmente identificare, e guardo tutto, piccolo extraterrestre neonato con gli occhi illuminati dalla natura profonda che nutre, semplifica e avvolge nel mistero le cose del mondo, il ramo intrecciato di quella quercia, la luminosità di un sasso bagnato, illuminato da una luce di provenienza ignota, dato un sole coperto e rubato. E, alla fine, sono proprio un monaco tibetano seduto sulla montagna della felicità potenziale, in preda a mistiche visioni, finalmente rosee, e anche un pò gialle, sul mio futuro e ci sono tutte le persone che conosco e qualche drago, cavaliere e fata sfusi.
E poi che succede? Assolutamente niente. Come se, mentre te ne stai sul picco della Terra a goderti la contemplazione del tutto, arrivasse un netturbino e "oh, scendiamo da sta montagna di immondizia? C'ho da lavorare io!" e tu "eh?" e poi scendi, niente più tuniche rosse, sguardi toccati dallo spirito della storie degli uomini, ma occhi torvi, scuri, sopracciglia incurvate verso l'alto, facce scontente, palazzi scoloriti, cielo grigio, una barbona appena sveglatasi, anche lei, in questa realtà senza sogni, che smuove un pò la misera coperta di cartoni.
"Life is now" c'è scritto.
Traduco.
Reduce dell' esperienza nella Lhasa della mia anima, ancora ce la faccio a sorridere per l'ironia bastarda di questo aggregato di uomini, asfalto, macchine e cemento. A volte, sa essere comico in un modo tutto suo.
A volte.
Il fumo della città.
Non capita mai nulla che venga a cambiare questa vita, mi chiedo. Qualcosa di positivo intendo. E quando la vedo lì davanti, che arriva, la vedo, so che è lei, la mia speranza, la mia svolta, resto immobile con le braccia aperte e rimango solo, la sensazione che un ectoplasma mi trapassi e la tristezza d'averci creduto. Tanti altri fantasmi entrano uno nell'altro, ma non hanno quei capelli che volevo, non quegli occhi, non quelle mani. In definitiva, sono solo persone che si scambiano anime e pensieri senza accorgersene. Solo il neon di una città che si fa notturna di temporale sin dalle prime ore del mattino. Una macchina non si ferma al passagio pedonale, il verde del semaforo dura il respiro d'un uomo anziano, l'autobus è pieno e sto stretto, in piedi, soffocato o, forse, sto solamente reimparando la mia quotidianità.
"Scusi, scende?"
"No" e resta ferma. La logica sottostante ad una domanda è un esercizio intellettuale troppo complesso per la signora occhi di falco, buste della spesa, foulard sui capelli che già ha deciso di odiare quello che gli sta intorno, di non capire, di imprigionarsi altrove.
"Scusi, dovrei scendere" lei si scansa senza dir niente.
Scendo dall'autobus, mi avvio verso la fermata della metropolitana, il coglione che va forte sul bagnato mi spedisce un'onda di oceano-pozzanghera sulla parte destra dei jeans. Considero la situazione, tenendo i calzoni con una mano e analizzandoli.
Scoppio a ridere.
Allora m'accendo una sigaretta, una di tante, mi siedo su un muretto, uno di tanti, vicino a me un vecchio, due ragazze, una mamma col bambino, un signore con un cane. Sono ancora uno di tanti. Mi chiedo se qualcuno di loro abbia mai visto la sua Lhasa. Butto fumo dalla bocca.
Passa il tram, mentre mi scorre davanti agli occhi, ho tempo di leggere.
"Life is now" c'è scritto.
Come se non lo sapessi già.